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l'ultima avanguardiaarte programmata e cinetica 1953/1963Palazzo Reale, 4 novembre 1983 - febbraio 1984
Curatrica: Lea Vergine |
Lea VergineTutto l'interesse dell'arte è nel principio. Dopo il principio è già la fine.» (Picasso, 1932) Qualche considerazione sul clima dell'epoca
C'era una volta «Nuova tendenza» che nacque a Zagabria dall'incontro tra un pittore brasiliano, Almir Mavignier, e un critico serbo, Mato Mestrovic, arguto pronubo il direttore croato della Galleria d'arte contemporanea, Bozo Bek.
Correva l'anno 1961. In Jugoslavia tenevano banco i naïfs e la pittura socialista ufficiale; qui e là, nel resto del mondo, le diatribe tra arte astratta e concre ta, tra espressionismo astratto e figurazione: l'up to date cosmopolita era però la mistica dell' informale. Sul piano internazionale, la mostra e gli incontri del '61 a Zagabria furono la prima occasione perché scultori e pittori di differente provenienza - le matrici concrete, surrealiste, dadaiste, tachistes erano palesi - si riunissero alla ricerca di un verbo nuovo. Ma, attenzione, si erano già costituiti a Padova il Gruppo N, a Milano il Gruppo T, a Parigi il GRAV. E qualche lustro prima avevano destato notevole interesse Enzo Mari, Enrico Castellani e Piero Manzoni (sia pure in una direzione diversa, quest'ultimo). E qualche lustro prima Vasarely, col suo Manifesto giallo e, ancora prima, Bruno Munari; e così a ritroso ... Dunque, l'iniziativa di Zagabria fu un'opportunità sagace per cominciare a raggruppare una parte di ricerche e ricercatori già esistenti. È difficile rifarsi al concetto di poetica per «Nuova tendenza» poiché, già al suo nascere, al suo interno medesimo, rivelava differenti ipotesi di poetiche e di denominazioni (si vedano a pag. seg. i brani estratti da una lettera inviatami da Bozo Bek). Per arrivare allo scandalo che esplode a proposito di quella che fu definita arte o esercitazione profana, tecnologica, parascientifica, sistematica, furono necessarie altre mostre europee; in Italia, la rassegna dell'Olivetti del '62 - ma già a Milano Danese, nel febbraio 1960, aveva esposto i nuovi esperimenti e la Biennale di San Marino, «Oltre l'informale». Era il 1963. Vent'anni fa. Cosa volevano e cosa dichiaravano i giovani artisti provenienti per lo più dalle accademie di belle arti d'Europa e d'America Latina che, infervorati da Mestrovié, esponevano a Zagabria, fiancheggiati da Denise René, a Parigi, invitati da Munari e sostenuti da Umberto Eco, nella sede della Olivetti a Milano? Distruggere un sistema di comunicazione e insediarne un altro, si potrebbe sintetizzare rozzamente. |
Gli аллі '60, si sa, diventano sempre più molesti e imbarazzati da citare, ricordare, analizzare (ma che tristezza, com§eravamo, come non eravamo, tutti geni e non lo si apprezzava, quelli si erano tempi, rivisita tu che rivisto anch'io...). Fatto sta che oggi si può sostenere che fu l'ultima volta che un gruppo internazionale di artisti propose un programma e un modello di cultura e di pratica del far arte diverso, alternativo. Esso identificava, o cercava di farlo, il linguaggio con l'ideologia, accompagnando questo tentativo con una riflessione teorica che fu anche formulazione didattica per identificare lo specifico o la specificità dell'opera d'arte.
A partire, grosso modo, dall'estate del '62, gli artisti che ricorda Bozo Bek, ma soprattutto il Gruppo T, il Gruppo N, il GRAV, Enzo Mari, Gerhard von Graevenitz e il critico Mestrovié, presero a proporre e predicare (talvolta a dogmatizzare), dando luogo a infuocati seminari, a una frenetica attività di studio, di confronto, di discussioni, di manifesti, di esposizioni. L'artista (colui che crea, assolutamente libero, producendo sempre alcunché di nuovo, colui che fa, inventando contemporaneamente il modo di fare) o esprimeva se stesso mediante metafore letterarie, o protestava con un discorso di tipo individuale, senza preoccuparsi di incidere realmente, col suo operare, sulla società che voleva mettere sotto processo, o propugnava la necessità di un'operazione didattica e demistificatoria, essendo però tagliato fuori dalla struttura sociale, condizionato nelle proprie possibilità di intervento da mezzi di comunicazione inadeguati. Dato per scontato che le arti visive avevano esaurito la loro funzione commemorativa e illustrativa, l'unica ragione perché entro una società in continua e rapida espansione (nella quale a valori sclerotizzati se ne andavano sostituendo altri ancora confusi, nella quale tradizioni culturali diversissime, e spesso contrastanti, si sovrapponevano indiscriminatamente) potesse sopravvivere l'arte era la ricerca di nuovi rapporti. Affetti da quel morbo squisito che Henry James definiva «la volontà di rifare il mondo», gli artisti di cui ci occupiamo intendevano analizzare con sistematicità i fenomeni della percezione, tentare una scienza dell'arte, dimostrare che ciò che conta nell'opera sono solo le sue implicazioni di conoscenza e comunicazione, che il progetto dell'opera è l'opera d'arte indipendentemente dalla sua realizzazione; dare una formulazione teorica ai risultati delle loro ricerche e allargarne il significato toccando tutti i campi dell'esistenza; ribaltare il ruolo dell'artista, dell'autore protagonista. Convinti che la ricerca nuova fosse strettamente connessa con un modo nuo-dare vo di vivere, riproponevano - come nelle avanguardie storiche - il mito e l'utopia della rispondenza tra nuova forma e nuova società. L'arte programmata (quando si programma, si prevede, si predetermina, si prefigura) e cinetica (si badi, laddove il cinetismo è programmato) ha rappresentato indubbiamente un sostanziale rinnovamento del fare e dell'intendere estetico, inaugurando una nuova fase della visualizzazione e ampliando, tra l'altro, quella sfera della percettività ritenuta, fino ad allora, esclusivo dominio delle discipline scientifiche. Non ci si mosse più da valori dati, e dei nuovi valori individuati si program-les ma la destinazione. Alla prassi dell'interpretazione si sostituì la tecnica dell'osservazione e dell'accertamento metodico. Si voleva fornire alla società il modo di strutturare l'ambiente fenomenico nel quale l'uomo viveva. Quello che interessò i programmati fu: promuovere una metodologia inter-coloro formativa (di qui il tentativo interdisciplinare); rendere esplicite le strutture percettive che sostengono le immagini e i messaggi legati alle immagini stesse; i rapporti tra dati primari (già esistenti) e dati costruiti; l'opera come campione tipologico (nel senso cioè di modello); la lotta contro la mercificazione dell'arte, spostandone l'attività in una dimensione didattica e, pertanto, in una direzione più politicizzata. L'arte programmata puntava sui processi fenomenici che scaturiscono dalla natura stessa delle cose: del loro intrinseco dinamismo propose, attraverso realizzazioni ricche di indicazioni prospettiche multiple, un' analogia plastica. Spesso le entità naturali venivano mutate in entità culturali per aiutare lo spettatore ad appercepire il campo fenomenico nel quale ci troviamo, tramite sistemi sintetizzabili nella formula stimolo-reazione. Gli autori progettavano modelli che intendevano svolgere una funzione sociale - la smitizzazione dell'opera d'arte - e una conoscitiva - porre il pubblico in una situazione di consapevolezza -. Intendevano fornire un' informazione a carattere globale del fenomeno esemplificato e l'insieme dei dati necessari per programmarlo. Connotazione dei fatti e individuazione della dinamica che spiega le leggi della loro trasformazione. Avanguardia voleva dire capire le cose prima degli altri, presentare modi inediti di comunicazione, l'arte era pur sempre cercare di liberare la gente perché riuscisse a vivere meglio la vita: fu in questo senso che si mossero gli artisti qui riuniti. Mentre il lavoro artistico presuppone progetti di rapporti umani liberati, le istituzioni borghesi e l'uso che se ne è fatto conferiscono alle opere compiute il tradizionale marchio di privilegio e di eccezione: il valore qualitativo, tramite la riduzione a merce, viene fatto coincidere con il valore di scambio, snaturandone l'autentico processo di significazione. Il rapporto del pubblico con l'opera d'arte diveniva un altro: si capì che il prodotto mercificato non era socialmente utile, mentre necessario era, invece, lo stadio precedente, quello, appunto, della ricerca. Che l'artista non fosse più il maieuta della nostra società, né il mediatore tra il finito e l'infinito, né «l'individuo della storia del mondo», fu una delle convinzioni che animarono soprattutto i gruppi. Nell'Europa informale degli anni '60 nascevano le ricerche associate da parte di giovani artisti italiani, francesi e sudamericani. Gli anni trascorsi ormai ci permettono di riconoscere gli aspetti velleitari del lavoro di gruppo, senza però sminuire l'incidenza di una dinamica che ha introdotto nel fare contemporaneo uno dei luoghi più tipici della socialità dell'arte, quale quello dello spettatore coautore. Al costituirsi dei gruppi concorsero diverse motivazioni: certamente l'esigenza di andare oltre le capacità del singolo a promuovere un linguaggio nuovo, ma anche la decisione di unirsi per formare impatto in modo da sfondare in maniera organizzata. Strategia di scarsa durata però, poiché subito dopo le prime mostre e le annesse dichiarazioni di poetica, una volta avanzato il fronte comune, le opere cominciarono a essere firmate individualmente e alcuni dei componenti cominciarono a primeggiare. |
Tipologie delle ricerche
Ricordiamo qui gli elementi mediamente comuni e variamente interrelati alle ricerche programmate; in alcuni casi tali elementi sono complessivamente presenti, in altri lo sono parzialmente.
La verifica di un determinato fenomeno percettivo in tutte le sue variabili pocenziali si manifesta in un modello - nell'opera - mediante la programmazione di elementi semplici. La programmazione può prevedere una lettura a senso unico, predeterminata, oppure una lettura più libera, non coatta (in ogni caso il pubblico tende a porsi dinanzi a queste opere in maniera arbitraria). In alcuni casi la programmazione è percettivamente rilevabile nel suo insieme, in altri (opere manipolabili dallo spettatore o mosse elettricamente) a leggibile in una sequenza temporale. I materiali impiegati sono diversi da quelli tradizionali per ragioni meramente funzionali. L'opera ha bisogno di artifici per il movimento: motori e meccanismi elettrici, dispositivi vari, lampade (la luce, con la sua possibilità di intermittenza, è un artificio del movimento), superfici trasparenti, graficizzate e sovrapposte o riflettenti (l'ambiguità percettiva che ne scaturisce coinvolge lo spettatore in una lettura allargata, come espansa nel tempo). In altri casi i materiali sono simili a quelli tradizionali, ove il tema trattato lo consenta, oppure quando l'autore intenda limitarsi all' enunciazione didattica del suo programma. In altri casi ancora l'autore impiega i mezzi tradizionali perché ritiene che l'opera realizzata possa essere collocata negli spazi convenzionalmente deputati all'ubicazione di un'opera d'arte. Lo spettatore - e, s'intende, i critici di un tempo passato e presente - reagisce a queste opere solo eccezionalmente secondo le previsioni dell'artista. Egli tende a leggerle in modo altro ed è avvinto soprattutto dalla loro eccentricità, vistosità, bizzarria e, quindi, dagli aspetti superficialmente ludici dell'esperienza. Si dà poi l'eventualità - incidente che principiò nella grotta di Altamira che molte di queste opere, al di là della compartecipazione dello spettatore ligio alle modalità di lettura programmate dall'autore, si pongano, proprio per le indicazioni multiple che esse contengono, come oggetti sinsemantici. Ancora una volta può accadere che, nonostante le istruzioni per l'uso, quella che intendeva essere solo una rigorosa misurazione della dimostrabilità dell'arte finisca con l'essere arte tout court, a prescindere dalla ricerca (contraddizione paradossalmente felice). |
Geometria come difesa e seduzione
Nessun racconto, allusione, emozione, allora? Chi può dire che questo è assente da opere che registrano il diario dei segni, che tracciano la biografia dei punti, delle linee, delle superfici, che mirano al più essenziale dell' essenziale, al segreto dell'apparenza, in opere che osano togliere il velo alla verità? Cerchi quadrati, triangoli, figure bianche, nere, vuote, piene che eliminano la rappresentazione della pittura. Pittura che, quando è tale, allontana da se medesima la determinazione che è propria della pittura, la qualità: pittura senza disposizioni, sensibilità, pittura senza qualità.
Inoltre tali opere descrivono alla stessa maniera la presenza e l'assenza. Forse proprio per questo la loro seduzione è grande: poiché non è la seduzione dell'estetica ma quella della metafisica, dell'abolizione del reale. Esse ricordano assillantemente una realtà perduta, qualcosa come una vita anteriore al soggetto e alla sua presa di coscienza. Quali tremori e terrori dietro tanta rassicurante geometria! Ma, si sa, è capace di aver coraggio solo chi ha paura. A queste opere non sono estranei né il delirio, né l'insieme di candore ed esasperazione, né una geniale pedanteria, né una fratesca follia deduttiva. Una gelida fascinazione, talvolta un terrorismo logico, tal altra una concentrazione tra didascalico e demenziale, e l'ambiguità inesauribile nella asettica sistematica chiarezza fanno venire in mente che «aver ragione è la naturale vocazione della follia», come scriveva Giorgio Manganelli. |
Utopia e fallimento
Fu, la «programmata», arte della, oltre, o contro la crisi? E fu una tendenza o una fede?
Gli autori avevano entusiasmo, innocenza e speranza in un mutamento certo, in un progresso e in un progetto buono (è vero che ogni progetto è una forma camuffata di schiavitù?). Un approccio fideistico è innegabile; ma per molti di loro non fu solo una professione, fu una passione onnivora, meglio, la sola forma possibile di esistere. Abbiamo visto come si sia riproposta la vecchia utopia dell'identità o della convergenza di arte e politica. Le sole utopie ammissibili sono quelle che «evocano I viaggi di Gulliver, bibbia dell'uomo disingannato, quintessenza di visioni chimeriche, utopia senza speranza», come scriveva E. Cioran? Il ricercatore degli anni '60 aveva tutto e niente a sua disposizione; poteva mettere insieme lo scientifico, il sociale, il politico, poteva meditare sulla morte dell'arte e salire sulle barricate o cercare i contenuti dell'arte dove poteva e, talvolta, li trovava anche. Tutto, agli inizi, concorse al successo dell'arte programmata, perfino 1 suoi oppositori. Molti critici, tutti gli altri artisti, il mercato soprattutto non perdonavano loro di aver fatto tanto scalpore. Ma niente ne arrestò - ahimè l'espansione. I protagonisti, già negli anni dal '63 al '65, affacciatasi la pletora degli imitatori e degli epigoni di buona volontà, erano messi e si mettevano in disparte, intenti a interrogarsi su come superare l'impasse. Sulla scia degli entusiasmi destati dalle parole di Giulio Carlo Argan in occasione della Biennale di San Marino, nel '63, in Italia di gruppi se ne formarono parecchi, per sciogliersi entro un breve arco di tempo, anche perché, man mano che si davano risultati di ordine pratico, appariva sempre più duro dividere con i compagni di gruppo i riconoscimenti personali. Anche il Gruppo N e il Gruppo T, dopo una nevrotica agonia, si diedero la fine. L'interesse creatosi intorno al lavoro di équipe promosse una serie di accostamenti di cui vanno ricordati almeno tre: il Gruppo 1 costituitosi alla fine del '62, il Gruppo '63 e l'Operativo R, a Roma. La differenza tra questi gruppi e l'N o il T stava nel fatto che questi ultimi proponevano una concezione dinamica, sostenendo che attraverso il movimento prendeva coscienza la dimensione tempo, che si passava dallo stadio del possibile allo stato dell'esistere (in questa direzione si mosse anche il Gruppo Mid di Milano, costituitosi, sul finire del '64, come studio di ricerche visive sulla progettazione di ambienti e di oggetti, sperimentando la possibilità di comunicazione della vita artificiale, specie nell'ambito dei fenomeni stroboscopici, e sulle proprietà dell'illuminazione a luce fredda). I componenti dei gruppi romani, invece, dipingevano ancora quadri e costruivano oggetti bidimensionali dove il movimento era solo illusorio e l'idea del tempo non interveniva. Alcuni ricercatori continueranno a lavorare sul tema dell'ambiente; altri cambieranno, nel bene e nel male, ruolo, destino e pratica operativa; altri getteranno la spugna; altri ancora continueranno a ripetere i risultati delle prime ricerche: ci fu persino chi tornò, o addirittura approdò, alla pittura. Pochissimi non hanno più voluto produrre «opere d'arte», trasformando la loro ricerca a carattere prevalentemente estetico in contestazione sistematica della comunicazione artistica contemporanea. «Nell'arte - scrive Giulio Carlo Argan - la contestazione ha già intaccato uno dei capisaldi dell'estetica tradizionale: la necessità che l'arte, per essere arte, produca opere d'arte, cioè oggetti che diventano immediatamente merce e il cui valore si traduce in prezzo. La contestazione dell'oggetto non ha in sé rulla di teoricamente insostenibile: per fare arte non è assolutamente necessario fare oggetti artistici, così come per fare filosofia non è assolutamente necessario scrivere libri di filosofia (si pensi a Socrate, ai pensatori orientali). Se l'arte è il modello del processo che dà luogo all'esperienza estetica, è artístico ogni procedimento che miri a questo scopo e lo consegua. Il sistema tecnologico, considerato come sistema culturale, esclude l'arte a meno che non sia anch'essa una produzione di merce: per conseguenza ogni attività estetica che non si risolva in produzione di merce artistica ha carattere contestativo.» Nel momento stesso in cui l'arte programmata, per darsi una struttura definitiva, si avvicinava alla meta, si indebolivano e si esaurivano i valori veri. Divulgata - come tutte le ricerche - cominciò a svuotarsi nella sua ideologia. L'operazione fu aiutata dal feticismo tecnologico, dal compromesso idealistico, dall'eccessiva componente ludica, dall'irrigidimento in formule paramatematiche: componenti delle opere di coloro che, approdati a una forma di linguaggio, non andarono oltre e stemperarono le ipotesi iniziali in un manierismo che rinnegava l'essenza stessa della ricerca. L'arte programmata non fu tanto distrutta e disgregata dai suoi oppositori ma - fatte salve le solite eccezioni - dai suoi sostenitori che ne equivocarono gli intenti, da coloro che parlavano di scientificità laddove sarebbe stato giusto parlare di congetture, di qualcosa cioè che precede persino la formulazione di un'ipotesi; da molti di quei paladini che, dopo averne utilizzato tutte le opportunità più effimere, minarono definitivamente la credibilità della tendenza riducendo a ciarpame da luna-park quello che era nato con intento rivoluzionario. Dunque, non si estinse perché troppo politicizzata o troppo rigorosa o rigorista, come si disse da più parti, ma perché non lo fu abbastanza. Certo, determinante fu l'eterogeneità di estrazione e di obiettivi dei partecipanti. Pareva agli inizi che si potesse parlare di una grande comunità, di una scuola; in realtà apparve chiaro, nel '65, che si trattava piuttosto di un'accolita di indipendenti. Apostoli senza Cristo, apostati senza Pietro, sapevano di correre incontro a una felice catastrofe? C'è da dire anche che occorreva una grande capacità poetica per non esaurire la ricerca dei nuovi metodi di comunicazione in fatti puramente tecnici. Ma anche la poetica ognuno se la dava in proprio. Le opere, a un'attenta lettura, apparivano tra loro inaccostabili. E tali sono rimaste. Si arrivò così alla diaspora. Con la mostra «The Responsive Eye», di New York, risultò chiaro che tutti i giochi erano stati fatti. Le degenerazioni provinciali raccattate nei campi degli esercizi di psicologia. sperimentale, i divertissements ottico-retinici, il decorativismo più ovvio si erano propagati fino a determinare la nauseabonda banalizzazione che aveva portato alla moda optical in tutto l'Occidente, all'ottusa estasi del Kitsch, a pattume della bigiotteria firmata e delle teste cotonate. Si era principiato col laboratorio scientifico e si era finiti in boutique: lo stoico vagheggiamento dell'aurea proporzione aveva ceduto il passo al Biedermeler. |
Conclusioni
Ogni movimento rivoluzionario è romantico per definizione. Chi pensa che gli autori dell'arte programmata abbiano perduto, che siano stati sconfitti, non ha capito una cosa fondamentale: che, nella vita come nell'arte, non si puo giocare un ruolo di protagonisti reali ed essere anche vincenti. I vincenti, socialmente parlando, sono gli adattati, coloro che hanno rinunciato alla Ibertà intellettuale, a cercare di continuare a capire. Di fatto, come protagonisti sopravvivono quelli che, ancora oggi, conservano prospettive di libertà e desiderio di «mutare il mondo».
Siccome l'arte è perenne insurrezione, come ogni insurrezione essa ha le sue leggi. Anche questi artisti - come i protagonisti delle avanguardie degli anni '20 hanno stravolto la loro collocazione e compiuto l'enorme fatica di reinterpretare il loro ruolo e i loro rapporti con vecchi e nuovi interlocutori. Solo facendo violenza alla ragionevolezza si può sperare di cambiare qualcosa. Sicché questo fallimento non va considerato alla stregua di una ritirata; esso è quell'andare in un altro senso che pone gli antesignani, come sempre, a cavallo fra élites ed emarginazione. L'arte programmata resta certo la corrente più inquietante tra quelle degli ultimi vent'anni, perché c'è dentro tanto fallimento quanto successo (avete mai letto Gertrude Stein?). Il naturale e illuminante fallimento di questo mio scritto lo conferma ancora una volta. Non può e non deve, questo scritto, essere considerato un testo di spiegazione teorica ma un lavoro di interpretazione drammatica, con tutte le alee, le reazioni personali e l'intima violenza che la drammatizzazione comporta. Mi sono trovata davanti a una serie di entità eterogenee, sfuggenti, a un momento monoteistico del divenire delle ricerche e, subito dopo, al politeismo di una serie di procedimenti, a una discontinuità teorica e pratica. Tutti questi universi mentali si toccano sempre in maniera traumatica e io stessa, altro punto dell'eterogeneo, non spiego e non descrivo ma interpreto. Non posso che sensibilizzare il lettore allo spettacolo di tale discontinuità, registrarne le componenti principali senza poter fornire una grammatica di questa complessa macchinazione (che, tra l'altro, fa largo uso dell'assenza, come ho detto parlando di geometria come difesa), che ha avuto caratteri quali nessuna corrente dell'arte contemporanea ha mai avuto e che nessun'altra potrà avere, fenomeno unico ed estremo, non superabile per definizione. |
Criteri della mostra
In una situazione dove il riflusso, le risacche, l'american graffiti, il second hand, il post-modern stanno trascinando, sulle onde del quotidiano, i fantasmi di tutte le nostalgie, spruzzati però con il deodorante delle avanguardie, mi pare utile proporre gli elementi per un primo bilancio delle ragioni, degli obiettivi e delle tecniche della corrente europea più problematica tra quelle che si sono susseguite dal dopoguerra a oggi. Analizzare un fenomeno a carattere estetico, le cui contraddizioni fanno parte di una riflessione teorica del tutto attuale, e non solo nell'ambito delle arti visive, mi pare possibile solo oggi.
Poiché l'Italia - e in particolare Milano e Padova - ha dato alla ricerca che studiava i fenomeni della percezione visiva un contributo di primissimo piano, mi è parso giusto far partire proprio da Milano tale mostra. Di tanto in tanto non nuoce sottolineare l'apporto inventivo dato dagli italiani a una tendenza con la quale sono nate e maturate tutte le soluzioni nuove che diverranno appannaggio delle altre correnti tipiche degli anni '70; si pensi all'intervento sul territorio (land art), all'interrogarsi sul significato stesso dell'arte (arte concettuale), ecc. Perché proprio il decennio 1953-1963? Perché, di una tendenza, qualunque essa sia, il momento della nascita e delle prime formulazioni teoriche è il momento più vivo. Le prime ricerche contengono già - alcune in nuce, altre in maniera più evidente - tutto quello che dopo sarà sviluppato o continuato dagli stessi protagonisti. Non essendo, la mia, una visione celebrativa, agiografica, apologetica, ma soltanto critica, perché occuparsi della divulgazione o dell'accademia (quando non delle aberrazioni o delle degradazioni) che contraddicono lo spirito stesso della ricerca dal momento che c'è ancora da conoscere e interrogarsi sullo stadio delle invenzioni e delle scoperte? Inoltre, perché non suggerire una lettura più corretta e pertinente di opere sulle quali si è, da sempre, equivocato? Il fenomeno arte programmata e cinetica venne letto dalla critica e da quasi tutti gli altri interlocutori come poesia dell'universo tecnologico, come riscatto artistico dei condizionamenti propri alla nostra civiltà, talvolta come esito suggestivo e ludico delle applicazioni scientifiche. Più spesso come maquillage dell'oggetto industriale; nel migliore dei casi, come il laboratorio dell'arredo urbano, l'anticamera del design e della produzione in serie, come luogo d'incontro tra il versante tecnologico degli ultimi trent'anni e un rigurgito di coscienza artigianale: ovverosia come tutto ciò che non è stato. |
ALMIR DA SILVA MAVIGNIER
Nato nel 1925 a Rio de Janeiro, è allievo di Arpad Szenès e partecipa con Ivan Serpa e Abraham Palatnik al primo circolo costruttivista brasiliano.
Dal 1953 al 1958 frequenta i corsi nella sezione comunicazioni visive della Hochschule für Gestaltung a Ulm. L'insegnamento e i risultati delle ricerche visuali svolte da Josef Albers e Max Bill, nonché l'estetica dell'informazione di Max Bense, sono determinanti per la sua formazione. Nel 1954 compone il suo primo quadro con «punti». «punti apparvero nei miei quadri in un primo momento per realizzare in pittura uno sviluppo croma tico mediante una combinazione puramente ottica di colori e non più mediante combinazione di pigmenti - scrive l'artista -. Una concentrazione progressiva di punti mi ha risolto il problema dello sviluppo cromatico. [...] La caratteristica tridimensionale di ogni punto conferisce a tutta la struttura un lato in luce e uno in ombra. Da questo gioco nasce una combinazione ottica di colore, luce e ombra, il cui effetto muta se l'incidenza della fonte luminosa modifica la sua direzione o intensità. Questo rapporto colore-luce è differente da quello della pittura piana, in cui la luce può esibire il suo effetto, solo nei valori di luminosità alla comparsa del colore.» Mavignier, con rigore elementare, istituisce uno spazio mobile, in cui immagini sempre diverse vengono rapportate ad un modulo unico e stabilito. I punti in rilievo elaborano schemi percettivi composti secondo un ritmo seriale, di grandezza variata; in questo modo l'artista può ottenere spazi luminosi pulsanti. «C'è una caratteristica che viene accentuata nelle sue opere ed è il rilievo ovvero il gioco delle ombre portate: la composizione si compie con l'apposizione sullo schermo della tela di punti di colori, che sono un piccolo grumo e la cui protuberanza rispetto al piano proietta un velo scuro: l'ordito dinamico si istituisce anche quindi per questo fatto e non solo per gli allineamenti e le distanze fra corpuscolo e corpuscolo» (U. Apollonio, Occasioni del tempo, Torino, 1979). In un saggio del 1957 Max Bense analizza le opere di Mavignier e osserva come l'artista, rimanendo fedele alle regole degli artisti concreti, «preferisca l'esatta formulazione delle idee alla loro realizzazione più altamente consapevole; il problema del quadrato deformato, al suo risultato visuale sulla superficie (...), non e dunque la disintegrazione geometrica, ma la disintegrazione estetica di ciò che esteticamente rimane, di cio che esteticamente è avenuto». La distruzione estetica di cui parla Bense ti quarda il valore della «bellezza» delle opere in questione; infatti il senso estelico deve soddisfare le condizioni indispensabili della comunicazione: le intenzioni, non di creare un unicum, ma di comunicare una pluralità di conclusioni. Nel 1958 Mavignier e uno dei fondatori del Gruppo Zero, a Düsseldort. Partecipa nel 1960 a «Konkrete Kunst - 50 Jahre Entwicklung» a Zurigo; nel 1961 è il promotore di «Nove tendencijen a Zagabria. É pre sente alle Biennali di Venezia nel 1964 e 1968 e ne gli stessi anni a «Documentan 3 e 4 a Kassel Atro mezzo artistico frequentato da Mavignier è il manilesto: «Dopo il progetto del primo mantiesto, pel 1955 - afferma l'artista - i manifesti sono diventati una parte costitutiva della mia opera, indivisbili dalla mia pittura. Dipingere quadri o progettare ed eseguire manifesti è lavoro artistico.. Per Mavignier, quindi, il manifesto puo essere un momento di riflessione sui procedimenti artistici attuati in pittura: di qui l'utilizzazione, nel 1961, per la stampa di manifesti, di materiali inconsueti, come l'oro e l'argento, che creano oscillazioni e ambiguità percettiva; oppure il manifesto diventa un metodo di rivist azione e documentazione dell'opera di altri artisti, come quelli per François Morellet e per Getulio Alviani. Partecipa nel 1966-68 alle Biennali del manifesto di varsavia; una mostra antologica sui manifesti di Mavignier sarà realizzata nel 1981 dal Museo di arti e mestieri di Amburgo e dal Museo tedesco per la raccolta dei manifesti di Essen. Lo studio sul maniTesto si accompagna alle ricerche sul punto, utiliz zato come elemento tattile cinetico nelle Permutazoni e come minima struttura estetica nei Quadrati deformati, elemento, afferma Bense, che deve es sere considerato come segnale fisico ed elemento estetico un'esistenza pulsante nella molteplicità bidimensionale dei colori, un elemento di un paesag gio impercettibile, della geografia estetica della tata morgana dei punti. Sue opere sono esposte nel 1968 a «World and Imagen al Museo d'arte moderna di New York e ad «Ars multiplicata» a Colonia. E presente agli allestimenti di «Zero Raum» a DUsseldori (1973) e «Zero Bildvorstellung einer europäischen Avantgard 1958 1964» a Zurigo. |
Almir Mavignier, Permulationen (sedici esemplari), 1961, serigrafia, 39,7 x 29,6. Coll. dell'autore, Amburgo.
Occorre istituire delle differenziazioni nella cosiddetta variazione in pittura per questi motivi. La permutazione come gioco di mutamento all'interno delle possibilità combinatorie dei suoi elementi è limitata. La variazione è invece un processo di possibilità illimitate o limitate in una dimensione infinita. Nello sviluppo creativo delle variazioni l'artista rimane autore della sua opera, è condeterminante e può arrestarsi dove vuole. Nella permutazione l'artista è autore del programma e decide sul rapporto forma-colore degli elementi compositivi, che si permutano gli uni con gli altri.
Il suo influsso sul risultato creativo si esaurisce nello svolgimento del processo delle permutazioni, l'opera è liberata» in questo modo dall'artista che dall'ambito formale del conscio e dell'inconscio. L'utilità di un programma accresce la probabilità di scoprire risulta |